Il deserto del Sahara è magnifico e maestoso, la sua bellezza ci rapisce in ogni caso, lasciandoci alla testa. In questo articolo diamo la parola a Tahar Ben Jelloun che ne parla spesso nei suoi romanzi e nelle sue storie, perché le sue parole descrivono efficacemente le emozioni evocate di fronte al deserto del Sahara in tutta la sua maestosità.
“…. La bellezza del Sahara è un enigma. Innumerevoli dune, immensità a perdita d’occhio, che cambiano gli orizzonti e la luce perennemente evocativa. Parlare del Sahara è come aprire un vecchio manoscritto e approfondire un racconto fantastico. È un libro illeggibile perché non appena le parole vengono impresse su di esso, vengono spazzate via dalla prima raffica di vento. La tempesta poi cancella tutto e riordina il disordine, la sabbia non rimane mai ferma per un momento. Ridisegna il paesaggio in uno stato di costante trasformazione, mai statico.
C’è la bellezza del giorno e quella della notte. Il sole è l’artificio di entrambi. Il sole all’alba che si manifesta nella sua sublimità, proprio come fa al crepuscolo, dipingendo il cielo con una gamma di colori. È così violento a mezzogiorno che nessuno osa affrontarlo. Questo è il tempo della solitudine, della preghiera, della riflessione. (…) La luce e le sue sfumature. La luce e la sua musicalità. La luce e i suoi toni effimeri. E poi c’è la notte e il cielo stellato, una notte festiva. La notte con la sua aria gelida, la notte e il suo freddo pungente che sfugge al confronto con quello che cade sulla città. E poi al mattino l’alba ci viene offerta da questa notte oscura, costellata da innumerevoli stelle che brillano per l’eternità.
L’immortalità ha qualcosa in comune con il deserto. Entrambi sono caratterizzati da assolutezza, chiarezza, silenzio e profonda solitudine. Non è un caso che in questa immensità l’arroganza umana svanisca e la fratellanza diventi uno stato naturale. Non è un caso che gli abitanti del deserto che emigrano in città si sentano infelici e inadatti.
(…) Ai margini del deserto, qualcosa di surreale si muove lungo il fondo dell’aria. (…) Qui non c’è posto per la fretta o l’impazienza, due vizi della vita cittadina. Bisogna imparare come non aspettare nulla, come non fare nulla, tornare a se stessi e isolarsi nella propria shell, indipendentemente dalla sua coerenza. Bisogna prendere tempo come viene, inchinarsi al suo ritmo e umore. È così che impariamo il dono della gratitudine, entriamo in una bellissima lentezza in cui l’umiltà è l’unica regola ”.
Dal Marocco, un romanzo di Tahar Ben Jelloun